Da almeno quindici anni, l’Italia è tra i leader in Europa nelle politiche di sviluppo del fotovoltaico. La crescita è forte, anche nell’ultimo anno, con un incremento di produzione dell’energia del 12%, stando al Rapporto Statistico del GSE. Dati importanti e atteggiamento meritevole, se non fosse che questa inclinazione green conduce anche il nostro Paese verso un amaro confronto e una subdola dipendenza dalla Cina. Questo perché, per proseguire nel processo di decarbonizzazione, servono tecnologie che il Dragone ha sviluppato in maniera rapida e in totale deregulation, conquistando una supremazia – specie a livello di prezzi – ora difficile da scalfire.
Mettersi a costruire un impianto di produzione di pannelli fotovoltaici in Italia, ad esempio, significa spendere nel migliore dei casi due volte e mezza – e, nel peggiore dei casi, quasi sei volte – rispetto ai soldi necessari in Asia. Il discorso non riguarda solo il fotovoltaico: gli approfondimenti realizzati in uno studio di Enel Foundation con The European House Ambrosetti (presentati al forum di Cernobbio) evidenziano come anche la realizzazione di una gigafactory da noi costa il doppio rispetto alla Cina, così come le batterie elettriche richiedono un investimento superiore di un terzo.
Altri due elementi da non dimenticare nell’affrontare la questione sono i seguenti: la gran parte delle tecnologie poggiano su materie prime che qui non ci sono o non sono estratte (l’UE deve importare, ad esempio, il 100% del litio e i quattro quinti del cobalto) e i tempi di realizzazione degli impianti sono mediamente il doppio di quelli asiatici. Così si agisce di rincorsa, per mettere in piedi una filiera che possa coprire almeno la metà del fabbisogno entro il 2030, poggiando su qualità in ricerca e sviluppo che in Europa (come in Italia) sono comunque molto elevate.
Che i cinesi siano determinati è un fatto inoppugnabile, tanto da essersi mossi in anticipo, investendo nelle zone del mondo da cui arrivano le materie da lavorare nella loro filiera. Ma il divario nasce soprattutto dal fatto che il colosso orientale agisce indisturbato, lontano da norme stringenti di rispetto ambientale e dei lavoratori. Allo stesso modo i costi energetici per avviare le produzioni sono inferiori, così come i tempi necessari. L’Italia, spingendo nella direzione dell’energia rinnovabile ma mancando di una regia europea nella realizzazione di una filiera autosufficiente, di fatto si rende dipendente dalla Cina.