La prima volta che l’ho incontrato sembra passato un secolo, all’epoca del governo Berlusconi-Bossi di cui ero capogruppo alla Camera, e lui aveva già oltre ottant’anni: più che un ex comunista era un aristocratico apparentemente fragile, affabile, colto, lontanissimo dai modi e dallo stile della politica romana.
Nello studio ricco di stucchi e ori aleggiavano gli spiriti dei trenta Papi che lo avevano vissuto, e lo sfarzo pensato per meravigliare cinque secoli di dignitari, ambasciatori e regnanti, figuriamoci un giovane deputato neanche quarantenne.
Mi riempì di complimenti personali e aneddoti storici, soprattutto sull’alternanza dei governi repubblicani. Il Presidente voleva convincermi che – dopo lo strappo di Gianfranco Fini – il governo non aveva più i numeri e che occorreva cambiare premier e maggioranza. Mi permisi qualche timida obiezione. Si irritò, andammo in aula, il governo mantenne la maggioranza.
Mi fece sapere che era arrabbiato, ma sempre con stile, come un sovrano deve essere.
Il secondo colloquio fu meno affabile, più deciso: non avrebbe acconsentito a sciogliere le Camere, lui era il Presidente, stop. Esposta la decisione, via libera per altri complimenti personali e aneddoti storici sulle scelte dei suoi predecessori.
Poi mi prese sottobraccio, come fa un vecchietto con un giovane, ma con una stretta più simile all’artiglio di un’aquila. Passeggiammo tra mille sale del Quirinale, sorvegliati dallo sguardo espressivo dei ritratti e da quello inanimato dei commessi in livrea.
Congedandomi mi disse «stia con noi, è così giovane che ha tutta una carriera davanti, non si metta contro di noi». Mi passò per la mente il pensiero che il Presidente avrebbe voluto essere rieletto, infrangendo per la prima volta una norma non scritta, ma forse era una maldicenza indegna di tal figura.
Si trovava bene il Presidente nel lussuoso palazzo, era a suo agio circondato dai suoi validi collaboratori, il meglio che la Repubblica sa esprimere. E si trovava bene anche la signora Clio, elegantissima sia nel palazzo che nei meravigliosi giardini, protagonista di ogni ricevimento, cortese con dame e gentiluomini come deve essere la prima signora del nostro Paese.
Purtroppo, la sorte ci fece litigare. Quando ci fu l’intervento in Libia, quando mi arrivavano “suggerimenti” per le votazioni alla Camera, fino alla nomina dello stimato Mario Monti, in poche ore senatore a vita e premier. Ed infine ci scontrammo furiosamente, io contro le politiche di austerity volute dal “suo” governo. E siccome “ubi maior minor cessat”, le nostre strade – e la mia con la politica – si separarono.
Lo punzecchiai altre volte, votando la sfiducia a Monti, chiamandolo per primo in aula a Montecitorio “Re Giorgio”, criticando le troppe auto blu del Quirinale. Mi tollerava senza scomporsi, come un nonno con un nipotino un po’ discolo.
Ci risentimmo una volta sola, al telefono, una chiacchierata da gran aristocratico quale era. Un signore di altri tempi, di governi nominati e non eletti, della politica di austerità imposta dall’alto.
Tempi andati. Speriamo non tornino.