Beppe Bonomi: «Una scuola di politica serve, in Italia troppa impreparazione e poca umiltà. E si torni a parlare di federalismo»

Giuseppe Bonomi, manager italiano di lunga esperienza, con ruoli importanti in Sea, Anas, Alitalia, Arexpo e tanti altri enti pubblici e privati, come mai ha deciso di mettersi a disposizione della scuola di politica dell’Associazione “I  Repubblicani”?

«Credo che in questo Paese non si faccia praticamente nulla per la formazione di chi è chiamato ad amministrare i beni pubblici. Non si investe in questa direzione da molti decenni. I risultati sono sotto i nostri occhi. Così se posso fare qualcosa, in un ambito politico ma allo stesso tempo apartitico, sono ben lieto di dare il mio piccolo contributo».

Perché parlare di formazione è così importante?

«La sua assenza ha provocato una situazione di grave degrado, presente in chi ricopre ruoli istituzionali ma anche nei cittadini, persino nell’elettorato passivo. Ci si lamenta dei politici, anche a ragione, ma essi altro non sono che il nostro specchio. Siamo un Paese in cui si parla molto e si agisce poco, nel quale ci si muove spesso per convenienza, senza preparazione né ambizione di averla».

Lei cosa pensa di poter dare?

«Intanto la mia voglia di mettermi in gioco per il progetto. Giovedì 30 novembre, alla presentazione della Scuola Quadri alle Stelline di Milano, mi hanno chiesto di riflettere sul modello capitalistico: un compito enorme per me che non sono un economista, né un cattedratico, però sono una persona che, per fattori contingenti e un po’ fortunati, ma anche per aver studiato molto, ha avuto la possibilità di maturare esperienze interessanti. Ciò che ho capito, lo metto volentieri a disposizione».

Lei ha ambizione di entrare in politica?

«Non è nelle mie corde, guardo ai Repubblicani proprio perché sono un’associazione e non un partito. La politica attiva l’ho fatta negli anni 90. Oggi, come la maggior parte degli italiani, mi sento molto lontano da quel mondo. Quella che spesso vedo non la considero neanche politica, perché come puoi pensare di amministrare senza conoscere nulla? Se poi almeno uno si mettesse a studiare una volta nominato, lo potrei quasi scusare. Ciò che non accetto è che quasi tutti non abbiano la minima intenzione di colmare le loro lacune».

Sembra un quadro drammatico…

«In effetti c’è di che essere sconfortati. Non che manchino i politici in gamba, però il problema della poca preparazione e del disinteresse a formarsi è evidente. Per questo faccio volentieri il docente a un corso: se ho qualcosa da dare, specie nella conoscenza di temi come le infrastrutture e le esigenze dei territori, io sono disponibile, con umiltà. Ecco, l’umiltà è un’altra delle grandi assenti nel nostro Paese. Tutti sanno già tutto».

Non ha paura di restare deluso?

«Non è un buon motivo per non provarci. Marco Reguzzoni ha la mia stima e so che ha voglia di scommettere su questi corsi. Inoltre, essendo i Repubblicani qualcosa di diverso da un partito, possono provare a fare una formazione – passatemi il termine – imparziale. Che non segua, cioè, i classici schemi della politica occidentale. Già questo è un passo notevole che dà valore al progetto, da cui ricavare qualcosa di buono».

Lei è stato in un passato lontano anche deputato e assessore. Che ricordi ha di quelle esperienze?

«È stato un periodo abbastanza breve, eppure intenso, della mia carriera. La verità è che i ricordi più belli sono legati al ruolo di amministratore locale, prima nella mia città di nascita Varese e poi in quella di adozione Milano. Il fatto di essere stato onorevole, invece, tendo a sottacerlo, perché ho misurato già all’epoca la poca utilità della funzione. Se il parlamento non è altro che la proposizione di decisioni assunte altrove, vuol dire che si è parte di un sistema un po’ bacato di democrazia. Invece nei Comuni avevo la sensazione di incidere di più, nell’interesse collettivo, lasciando qualcosa di buono».

Per i Repubblicani proprio i Comuni vanno messi al centro della gestione. Lei che ne pensa?

«Penso che sia sacrosanto e che, anzi, ci sia stato un fenomeno – in parte voluto ma anche determinato da episodi contingenti – che ha portato a dimenticare totalmente il federalismo. Nessuno ne parla più ed è un errore clamoroso. Io avverto da cittadino una carenza, perché manca una politica basata sui sistemi territoriali e si assiste a una involuzione dei servizi dato che tutto è centralizzato. Il federalismo deve rientrare nell’agenda politica, in modo prepotente, affrontandone potenzialità e rischi in modo ragionato».

Crede davvero che sia la soluzione?

«È un modello che ha dentro tante risposte. Però serve affrontare l’argomento con atteggiamento di studio. L’improvvisazione e gli slogan sono i grandi nemici, nascondono insidie enormi. Io non ho dubbi: proviamo a riportare il federalismo al centro del dibattito e, se sapremo discuterne con serietà, non potrà che portare cose positive. Forse tanti anni fa, quando il progetto federalista sembrava davvero realizzabile, il limite fu quello di averlo proposto ma non studiato a fondo. Ma non per questo meritava di finire nel dimenticatoio. Ecco, alla scuola di politica vorrei portare anche queste riflessioni, senza interessi di partito, ma per aiutare a conoscere le cose e formarsi un’opinione circostanziata».

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