Lo stipendio medio mensile è pari a 70 euro. Eppure, gli abiti realizzati nelle fabbriche del Bangladesh, in cui lavorano migliaia di dipendenti sfruttati e ridotti alla fame, sono spesso riferiti a marchi noti e diffusi in tutto il mondo, oppure riempiono numerosi grandi magazzini del Vecchio Continente a prezzi concorrenziali.
Sono gli stessi lavoratori bengalesi a ricordare in queste settimane quanto l’Unione Europea, e non solo, continui a restare in balia dei mercati emergenti come il loro, capaci di imporsi grazie alla mancanza di norme che tutelino l’ambiente, la salute e la dignità delle persone. Quella dignità economica che gli operai reclamano con una serie di scioperi e proteste senza precedenti, le quali hanno paralizzato la produzione in numerosi distretti tessili del loro Paese e che sono state spesso represse con la violenza.
Il punto chiave della rivolta è legato alla richiesta di un aumento sostanziale alle buste paga: come detto, ora gli operai guadagnano all’incirca 70 euro e, per mantenere le famiglie, chiedono di portare l’emolumento a 190 euro, cioè a triplicarlo. La controproposta si ferma a un ritocco del 25% e così sono scoppiate le rivolte. D’altronde anche in Bangladesh l’inflazione non ha smesso di galoppare, assieme all’aumento dei costi energetici.
La macchina tessile di questo Stato dell’Asia meridionale è imponente: si tratta del secondo paese al mondo per esportazioni tessili, dopo la Cina, con circa 3500 aziende che producono l’85% della merce in uscita ogni anno dai confini nazionali. Quando questi capi di abbigliamento arrivano sui nostri scaffali hanno costi irrisori, pagati con i sacrifici di decine di migliaia di dipendenti.
Una concorrenza sleale resa possibile dall’inerzia di un governo europeo che non riesce a mettere un freno a questo sistema distorto, tutelando i produttori locali e pretendendo il rispetto delle regole essenziali. Neppure ora che sono gli stessi operai bengalesi, con le loro clamorose rivolte, a dire basta.