«Meno tasse se chi compra un’attività è italiano, così si può difendere il nostro tessuto economico e imprenditoriale»

Sebastiano Signò, membro del direttivo dei Repubblicani e Partner in Thymos Business & Consulting Corporate Finance

È inutile negarlo, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito ad una conquista del nostro tessuto produttivo, del nostro know-how e del nostro patrimonio immobiliare da parte di investitori esteri con i quali è difficile competere sul piano economico. Questo vale dal piccolo negozio alle grandi aziende.

Per tante famiglie imprenditoriali la burocrazia, il fisco, i continui cambiamenti legislativi e la concorrenza sleale hanno avuto un impatto negativo sul passaggio generazionale e spesso, dopo tanti sacrifici, è comprensibile la scelta di capitalizzare i propri investimenti.

Se da un lato attrarre capitali esteri è necessario, dall’altro si rischiano anche delocalizzazioni, perdite di posti di lavoro, perdita di know-how ma, soprattutto, un vero e proprio passaggio di potere e influenze fuori dai nostri confini.

Non serve parlare di salario minimo se in uno Stato si perdono le aziende. Affrontare questi temi senza vere riforme strutturali significa solo mettere una pezza, di volta in volta, per attrarre consensi elettorali.

Ma come possiamo far competere i nostri investitori o aspiranti imprenditori con chi, grazie anche a scelte (e colpe) passate, oggi ha capacità finanziarie superiori?

Si potrebbe pensare a un sistema fiscale che, in caso di vendita di un’attività, favorisca la cessione a un compratore italiano, o quantomeno europeo. Ad esempio, per le aziende non-quotate, qualora l’acquirente (reale) rispetti questo requisito si potrebbe ipotizzare:

  1. La riduzione del 50% dell’imposizione fiscale per il cedente rispetto alla propria tassazione di riferimento sulla transazione
  2. La detassazione totale sulla parte di capitali reinvestiti, entro 2 anni dalla cessione, in aziende con sede legale, fiscale e almeno una produttiva nel territorio.

Questo avrebbe molteplici vantaggi: 1) permetterebbe ai nostri investitori di aver maggior margine per competere con grandi o piccoli, investitori cinesi, arabi e indiani, potendo offrire cifre inferiori a parità di guadagno per il cedente, favorendo anche le aggregazioni 2) favorirebbe il reinvestimento nel territorio 3) non impatterebbe sui capitali stranieri a supporto dei piani di crescita, perché potrebbero comunque intervenire in aumento di capitale.

Tutto questo non riguarderebbe solo le grandi aziende, ma anche e soprattutto le PMI e le piccolissime imprese. Si darebbero più possibilità ai nostri giovani di investire in una piccola attività già avviata o di acquisirne altre aggregandole e, probabilmente, si ridurrebbero anche le società “apri, chiudi e cambia nome” che spesso non pagano tasse.

Sappiamo che questa proposta è complicata sotto vari punti di vista, in particolare le modalità di classificazione e identificazione del vero investitore (sede, vero azionista di riferimento, provenienza capitali e altri aspetti ancora) però, diciamocelo, per anni sono state fatte scelte altrettanto complicate ma che hanno favorito la perdita del nostro patrimonio. Ora è necessario invertire la rotta.

Sebastiano Signò

membro del direttivo dell’Associazione I Repubblicani

Partner in Thymos Business & Consulting Corporate Finance

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