Il possibile federalismo della montagna

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Nel nostro paese, ormai da decenni, è in atto uno spopolamento dei piccoli comuni – in particolare quelli di montagna – con la conseguente asfissia abitativa che le città più grandi devono sopportare. Le cause che contribuiscono a innescare questa spirale sono la mancanza di opportunità lavorative, di servizi adeguati e di infrastrutture, che portano a una spirale di “impoverimento” della vita sociale dei paesini, invogliando i giovani a cambiare aria.

Molti di questi fattori sono innescati dalla “modernità” che vede concentrare sempre più nelle metropoli le opportunità lavorative: una volta era la fabbrichetta a fondo valle, oggi sono gli uffici delle multinazionali. Ma vi sono fattori della stessa “modernità” che da qualche tempo potrebbero contrastare il fenomeno: dai sistemi di comunicazione fino allo smart working.

Se però è vero che questi strumenti potrebbero aiutare i cittadini a stabilirsi nei piccoli comuni ad aprire attività, fare famiglia e mettere radici, è altrettanto da tenere in considerazione la necessità di politiche adeguate a favorire un “ritorno al piccolo” e un ripopolamento dei borghi montani.

Perché è interesse di tutti che la montagna non venga abbandonata? Innanzitutto perché la presenza antropica garantisce da millenni un equilibrio della natura che altrimenti verrebbe a mancare. Ma anche per salvaguardare le tradizioni, la cultura e le radici di interi popoli, evitando la dispersione di un patrimonio storico e culturale che viene annegato in periferie anonime e abbandonate. Oltretutto potrebbe costituire una risposta intelligente e di equilibrio alla tensione abitativa e sociale delle grandi città, contribuendo a ridurre gli affitti delle case.
Motivo ancora più profondo: nei piccoli borghi si vive bene, la vita è sana, gli spazi non mancano, l’equilibrio anche psicologico è nella natura delle cose.

Ma devono esserci servizi, ospedali, negozi, attività: se mancano, anche coloro i quali vorrebbero vivere nel proprio piccolo comune vengono spinti obtorto collo verso altre realtà più cittadine.

E allora che fare? Sarebbe auspicabile innanzitutto un cambio di rotta; il rilancio dei piccoli comuni non solo è possibile, ma anche strategico per garantire uno sviluppo equilibrato e sostenibile del territorio italiano. Se supportate da politiche adeguate, le aree rurali e montane hanno tutto per diventare motori di innovazione e – perché no – di sviluppo sostenibile.

Per vedere miglioramenti, nel concreto, sarebbe innanzitutto necessario fissare degli obiettivi da raggiungere: la creazione e il potenziamento delle infrastrutture di comunicazione, la tutela dell’artigianato e dei prodotti tipici alimentari, lo stanziamento di risorse per i Comuni piccoli e – forse una provocazione che intendiamo lanciare, ma che potrebbe essere una battaglia dei Repubblicani – la detassazione dei redditi di chi va a vivere o rimane in montagna.

Una misura che costerebbe poco anche perché oggi i redditi dichiarati da chi vive nei piccoli comuni sono bassi e pertanto generano poco gettito per le casse dello Stato.

Irpef a zero per i pensionati che ritornano in montagna, ad esempio, detassazione dei redditi da smart working per i dipendenti di aziende che autorizzano il lavoro da remoto in comuni montani, quote di Irpef che rimangono alle regioni se investite in infrastrutture e ospedali montani, quote di Irap da destinare alle comunità montane.

Una misura di “federalismo montano” che – applicata non solo sulle Alpi ma anche sugli appennini e in molti comuni del sud, ad esempio in Calabria – potrebbe dimostrare la bontà di un assetto federale indipendentemente dalla regione di appartenenza.

Una provocazione? I Repubblicani nascono per fare proposte e aprire il dibattito.

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