Gabriele Albertini ha amministrato Milano dal 1997 al 2006. È stato successivamente anche senatore ed europarlamentare. Sono passati diciotto anni dall’esperienza come primo cittadino, eppure quella resta la pagina più adrenalinica e coinvolgente della sua carriera politica.
Albertini, se oggi per strada qualcuno la chiama ancora sindaco, lei che fa?
«Mi viene naturale girarmi a salutare. Se dicono “buongiorno senatore” può essere che non pensi si riferiscano a me, ma alla parola sindaco scatto sull’attenti, non resisto».
Una soddisfazione ma anche una condanna…
«È un ruolo che mi è rimasto dentro e, se la gente ancora mi ricorda per quell’incarico, non può che farmi piacere. È una sensazione che mai avrei pensato potesse appartenermi. D’altronde io il sindaco l’ho fatto in maniera inaspettata, senza averlo ipotizzato, né desiderato, né cercato».
Ma allora chi glielo fece fare?
«Silvio Berlusconi. In verità, quando mi propose di candidarmi, io gli mandai un fax per dirgli che lo ringraziavo e rifiutavo, per una serie di ragioni che mi facevano sentire inadatto. Pochi minuti dopo mi telefonò».
Cosa le disse?
«Aveva una voce che sembrava provenire dalle caverne. Mi confidò il suo scoramento perché, se neanche un imprenditore accettava di scendere in campo, voleva dire che non c’era più speranza. Gli spiegai quanto i meccanismi che mi prospettava la politica fossero all’opposto di quelli che avevano sempre guidato la mia vita».
Ma allora come la convinse?
«A un certo punto si mise a ragionare sul fatto che il sindaco di una grande città, specie quello della laboriosa Milano, era colui che più si avvicinava a un imprenditore. Insomma, era il mio mestiere. Ne ho conosciuti pochi come lui, capaci di inquadrarti al primo sguardo. Stimolò la mia coerenza, capì che aveva trovato un pertugio nella mia coscienza, insistette. Infine, servì il colpo di teatro».
Vale a dire?
«Mi disse questa cosa: “Facciamo che lei esce di casa, sulla strada trova un incidente, c’è un uomo a terra, così chiama i soccorsi mentre altre persone si fanno attorno. A quel punto pensa che ormai potrebbe andarsene verso i suoi appuntamenti, perché è già in ritardo e la sua parte l’ha fatta. Ma una vocina la ferma: qualsiasi cosa lei abbia da fare, non è così importante come soccorrere, anche solo tenendogli la mano, un essere umano che forse non ce la farà. Ecco, quell’uomo sofferente che implora il suo aiuto, oggi sono io”. Gli risposi: “Presidente, si fermi. Se la mette così, accetto”. E iniziò l’avventura».
Qual è la morale di questa storia?
«Che gli uomini devono farsi guidare dalle loro vocazioni. Io mi misi a fare il sindaco come se il Comune fosse un’impresa: l’obiettivo costante di entrambi i mandati fu il raggiungimento dell’efficienza nella gestione di Milano. Ci riuscii su vasta scala, anche nelle aziende controllate. Persino ATM, che versava in condizioni disastrose, andò in attivo come non era mai accaduto nella sua storia».
È questa la mentalità che deve guidare i primi cittadini?
«Sì, però i binari che ho sempre seguito sono due. Se il primo è la dinamicità imprenditoriale applicata al pubblico, l’altro è la legalità. C’è un incontro personale che definisce il concetto meglio di qualunque teorizzazione. Accadde con Gerald Hines».
Cosa successe?
«Lui era uno dei più grandi immobiliaristi del mondo. Un ometto piccolo, taciturno, dalle poche ma taglienti battute. Lo conobbi perché aveva deciso di investire 2,5 miliardi di euro sul rilancio di Porta Nuova, una cosa mostruosa. Gli chiesi perché lo avesse fatto. Di primo acchito mi parlò di strategicità, progetti, profitto. Ma poi aggiunse: “C’è anche qualcosa che la riguarda personalmente. Nella vostra amministrazione, ci siamo informati, nessuno dà le carte truccate. Non dobbiamo percorrere strade contorte per raggiungere gli obiettivi”. Quelle parole sono uno dei più grandi complimenti ricevuti. Ed è la verità: la mia amministrazione rilanciò la metropoli in perfetta trasparenza».
Al di là dei bei ricordi, oggi vale ancora la pena fare il sindaco?
«Se uno ragiona razionalmente, è una cosa che può portare guai. Se sei un imprenditore o professionista, non ti conviene neppure economicamente. Ti farai nemici e sangue amaro, non avrai tempo per i tuoi affetti. Però, superato il timore per i rischi che corri e la responsabilità che assumi, è uno dei mestieri più belli e soddisfacenti. Certo devi essere consapevole di cosa ti aspetta: essere sindaco è un atto eroico, una sorta di sequestro di persona consenziente».
Perché allora nel 2021, quando Matteo Salvini le ha chiesto di correre contro Beppe Sala, ha detto no?
«Per l’assoluta contrarietà di mia moglie. Le motivazioni politiche e personali erano identiche a quelle di tanti anni prima, quando scesi nell’agone. Però io e la mia consorte sapevamo perfettamente a cosa sarei andato incontro, che sarei di nuovo sparito. Non me la sono sentita di rischiare una crisi coniugale».
Ma allora consiglierebbe o no di guidare un municipio a chi si dedica alla politica?
«Non è una cosa da suggerire, viene dalla coscienza. Chi ha dentro quella vocazione, se ha l’occasione, ci prova. Io sicuramente posso testimoniare che è un’esperienza bellissima e che si può fare un gran lavoro, senza sotterfugi. Basta avere le idee ben chiare di cosa ti aspetta e accettare fatica e delusioni».
È così difficile, anche in un piccolo Comune?
«Peggio ancora. A Milano sei sotto i riflettori, ti senti al centro del mondo, hai comunque una macchina che puoi governare. In una piccola città hai proporzionalmente gli stessi problemi, solo che devi fare il sindaco e pure l’impiegato, con uno stipendio modesto. Ripeto: è un lavoro difficilissimo, complicato e ingrato. I rischi sono enormi. Non si danno indirizzi, leggi e strategie come in parlamento, ma si devono mettere le mani nella carne viva della società. Ma alla fine, chi ha dentro l’istinto dell’eroe, si butta».
Oppure vi si dedicano quelli alla ricerca di uno stipendio…
«Vero. Però a me fanno paura soprattutto gli improvvisati. È una tendenza che dipende da una sciagurata circostanza per cui un partito guidato da un tragico comico è arrivato a prendere un terzo dei voti totali, favoleggiando sulla teoria dell’uno vale uno. È stato drammatico istituzionalizzare il non riconoscimento del merito, mettendo al centro delle istituzioni personaggi respinti dalla corrente della vita».
È stata la vittoria dell’antipolitica?
«Più che altro hanno trionfato la superficialità, il pressapochismo e l’invidia verso chi deteneva un ruolo perché si era preparato a ricoprirlo. Beppe Grillo, che sicuramente se deve fare un’endoscopia va da un medico specialista, decise invece di dare in mano l’Italia a persone improponibili anche per dirigere uno sportello in banca. L’incompetenza al potere è stata istituzionalizzata».
Quanto c’è bisogno oggi di una scuola di politica?
«In generale serve rimettere al centro il merito, quindi la preparazione. Anzi, sarò più drastico: io vengo da una famiglia nella quale l’impegno era considerato scontato e, più che premiare quello, si puniva il demerito. Nella scuola cattolica che ho frequentato, chi veniva bocciato non poteva ripetere l’anno, doveva andarsene. È uno stile votato alla massima responsabilità personale che mi è rimasto dentro e che ho trasferito prima nella mia esperienza da imprenditore e poi in quella da sindaco».
E Milano ne ha beneficiato…
«Credo parlino i fatti. Non me li faccia elencare, sarebbe lungo e poco umile. Di certo credo di aver dimostrato che preparazione, dedizione e rettitudine possono portare molto lontano».
Chi vede come futuro sindaco della sua città?
«Faccio due nomi: uno è Alessandro Spada, presidente di Assolombarda che ha senz’altro l’esperienza e la concretezza per ottenere grandissimi risultati, mettendo lo stile imprenditoriale e l’apertura ai giovani al centro dell’azione; l’altro è Ferruccio Resta, già rettore del Politecnico di Milano, uomo dinamico e competente, che ha conoscenze e visione per interpretare le complessità di una metropoli. Non dico Urbano Cairo, di cui sono amico, solo perché credo che i suoi tantissimi impegni in settori strategici rendano non consigliabile la candidatura, anche se è vero che Berlusconi lo fece».
Gabriele Albertini, invece, quale futuro politico disegna per sé?
«Mi stanno pressando per candidarmi alle Europee, ma io non è che abbia tutta questa voglia. Mi piace la politica, non la campagna elettorale. Non mi entusiasma neppure l’idea di vivere fra aerei e camere d’albergo, andando all’estero ogni settimana nel caso fossi eletto. A 73 anni sono diventato più territoriale, al massimo mi spingerei a Roma, nel mio Paese. Ho già fatto due volte il deputato europeo, so quanto sia impegnativo. Però dicono che un po’ di voti li posso portare. Vedremo».
Felice di essere tornato in Forza Italia?
«Io non sono mai uscito da quella tenda, ma nel tempo l’hanno spostata e solo adesso l’hanno rimessa al suo posto. Sembra che si stia ricreando l’idea originaria della prima Forza Italia di Berlusconi. Fossimo all’epoca dei romani, direi che il futuro poggia sulla forza e le idee di consoli, guerrieri, letterati e senatori. A un certo punto erano invece rimasti quasi solo pretoriani e cortigiane. Ora non è più così».
Ma quale dovrà essere la direzione?
«Chi vive dentro certi valori, sente forte il desiderio di un centro democratico che torni a colmare la lacuna di un’area moderata che sia anche intransigente nella propria moderazione. Si sente quel fermento che il Cavaliere intercettò agli inizi, muovendosi su principi ben chiari che si stanno coagulando di nuovo. Io guardo con estremo interesse a una proposta come quella dell’Associazione I Repubblicani di Marco Reguzzoni, perché ha dentro quel desiderio di un partito borghese di massa che ancora si percepisce».
È un obiettivo possibile?
«Attualmente esistono tanti rivoli, strisce d’acqua cristallina, canali più grandi o più piccoli che pressano sugli argini. Tutti stanno cercando la traccia per confluire in un grande fiume».