(di Sebastiano Signò)
Tra supervalutazioni e crolli di start-up, tra direttive ed incentivi incoerenti, un mondo di eccellenti piccole e medie imprese continua a generare e distribuire ricchezza.
UNA LODE ALLE ECCELLENZE DELL’ECONOMIA REALE
In questi anni continuiamo a leggere di successi per la raccolta di capitali nelle startup, che si tratti di qualche migliaio o qualche centinaio di milioni di euro, ed è anche giusto. Ma raramente si leggono complimenti per chi genera utili o per coloro che, dopo la raccolta, hanno finalmente raggiunto gli obiettivi. Ecco, in questo articolo voglio fare un appaluso a tutte quelle imprese, soprattutto PMI, che generano utili anno dopo anno.
Forse, presi dall’euforia e dal sogno del ritorno dell’investimento “1000x”, ci siamo un po’ scordati di tutti quegli imprenditori che tutte le mattine aprono la loro azienda, pagano regolarmente gli stipendi, vendono prodotti e servizi reali, combattono contro la burocrazia, pagano le tasse e alla fine generano utili.
Solo in Provincia di Varese abbiamo circa 290 PMI con un fatturato compreso tra i 5 ed i 50 milioni di euro con un’Ebitda superiore al 10% (media del 18%) e che generano utili. Di queste circa 165 presentano anche una Posizione Finanziaria Netta negativa (cassa), ovvero sono “liquide” o, come si suol dire, “hanno cassa”. Oppure in Provincia di Como, dove queste aziende sono circa 240 di cui oltre 130 liquide.
Non sono da meno, anzi, altre provincie come Monza e Brianza (370 di cui oltre 210 liquide), Bergamo (740 di cui 370 liquide) e Brescia (oltre 870 di cui 440 liquide).
I numeri chiaramente salgono in Provincia di Milano, con oltre 2.400 realtà che presentano gli stessi parametri (di cui oltre 1.500 con cassa).
Queste aziende operano in tutti i settori, dal manifatturiero al software, dall’alimentare all’edilizia, dalla moda ai servizi digitali. Sono aziende floride, sane, concrete. Sono imprese che sviluppano modelli di business che non necessitano di non pagare le tasse spostando la sede in paradisi fiscali per aver successo. E con il loro successo danno lavoro a migliaia di famiglie. Sono aziende – spesso familiari – che innovano anche per contrastare la concorrenza (a volte sleale) e i continui cambiamenti legislativi.
Queste aziende possono investire o diventare loro stesse oggetto d’investimento. Spesso sono, o possono essere, il punto di partenza per lo sviluppo di nuove iniziative, nuovi progetti, nuove startup ma con basi solide. Possono essere aggregatrici di imprese per competere sui mercati internazionali.
Alla fine, però, capisco la reticenza di questi imprenditori ad affrontare operazioni straordinarie (fusioni, acquisizioni, apertura del capitale) quando vedono la loro azienda valutata – magari anche con oggettività –molto meno di qualche nuova realtà alla moda, che non si capisce ancora bene a cosa serva, se mai genererà un utile e se sarà in grado di resistere alla variazione del contesto economico in cui opera.
VALUTAZIONI ECONOMICHE STARTUP: ERRORI SINGOLI O DEL SISTEMA?
Premessa: l’entusiasmo nato in questi anni attorno al mondo delle startup ha permesso di creare un ecosistema positivo di competenze, innovazioni e capitali che hanno consentito un balzo tecnologico a livello globale. Tale sistema va tutelato ed incentivato, infatti, diverse aziende sopra citate sono passate da questa fase.
Accanto a questo – purtroppo – si è sviluppato anche un sistema malato, fatto di mode e supervalutazioni, di ricerca del guadagno rapido e sostanzioso, di sfruttamento ed illusioni, di guru e founder di non si sa bene cosa, di frodi, ma anche di tanti consulenti ed investitori la cui professionalità può quantomeno essere ritenuta “dubbia”, di certo molto speculativa.
Così facendo il rischio di passare da circolo virtuoso a circolo vizioso diventa concreto. Danneggiando soprattutto le startup e gli investitori meritevoli che con la loro vision contribuiscono al progresso tecnologico ed economico mondiale.
In queste settimane leggiamo della bancarotta della londinese Babylon Health, l’unicorno (cioè startup dal valore superiore 1 miliardo) specializzato in servizi di telemedicina con intelligenza artificiale che, dopo aver raccolto 1.2 miliardi di dollari, è stato sottoposto ad amministrazione controllata. Ma anche di Infarm, l’ennesima startup bio-green in difficoltà, la quale, dopo aver raccolto 604,5 milioni di dollari per sviluppare le sue vertical farm, a gennaio ha deciso di licenziare il 50% dei dipendenti per arrivare in queste settimane a dichiarare il fallimento della filiale olandese. Un caso che fa seguito ad altre start-up del settore che, dopo aver ottenuto valutazioni stellari da parte degli investitori (con tanto di applausi), hanno intrapreso la strada del fallimento. Possiamo citare Appharvest, fondata nel 2017, quotata in Borsa nel 2020 tramite fusione con una SPAC. Nel 2021 ha raggiunto la capitalizzazione di 1.6 miliardi e poi, dopo aver registrato 176 milioni di perdite (rispetto i “soli” 166 milioni dell’anno precedente), ha chiesto l’intervento del Chapter 11 con una capitalizzazione residua di circa 3 milioni di dollari. Oppure la start-up parigina Agricool, fondata nel 2015, specializzata nella coltivazione di frutta all’interno di container nelle città. Un paio di anni dopo è stata vista come un caso di successo, tanto da raccogliere in una prima fase circa 8 milioni di euro per poi arrivare a 30 milioni di capitali investiti. “A breve l’installazione in più punti a Parigi, poi franchising e sbarco in altre città. Il nostro modello agricolo urbano è possibile” dicevano. A gennaio 2022 hanno portato i libri in tribunale.
Abbiamo anche storie di “grandi casi di successo” sfociati in fallimenti con risvolti penali. Tra questi spiccano quelli miliardari come FTX di Sam Bankman-Fried, del mondo delle criptovalute (e ora agli arresti), o della Theranos considerata fiore all’occhiello dell’industria tecnologica per aver sviluppato un dispositivo che avrebbe rivoluzionato il business delle analisi del sangue, salvo poi rivelarsi un buco nell’acqua portando il patrimonio della fondatrice Elizabeth Holmes da 4.5 miliardi di dollari a zero in poco tempo (ma ricevendo in cambio 11 anni di condanna). Entrambi i c.d. founder avevano in comune due punti: la rapida crescita del patrimonio, con altrettanto rapida discesa, e i guai con la giustizia per aver truffato gli investitori.
Ma vi sono tante storie recenti la cui parola fine, per fortuna, non è ancora stata scritta e la speranza di tutti è che ciò non accada. È il caso, ad esempio, della scale-up italiana Casavo, piattaforma proptech fondata nel 2017 che ha raccolto 843 milioni di euro, di cui 178,9 milioni di equity e 663,8 milioni di debito, dove tra gli investitori e finanziatori troviamo Exor, Intesa Sanpaolo, Goldman Sachs, Unicredit e altri fondi di venture capital, istituti di credito ed angel investor. Certo, oltre 800 milioni non sono noccioline, soprattutto se concentrate in una singola azienda nata pochi anni prima. Ma quando il business è interessante sembra che gli investitori non sentano ragione e si buttino. Il problema, forse, emerge quando al raddoppiare dei ricavi (da 103 a 215 milioni) raddoppiano anche le perdite (da 26 a 53 milioni). E alla fine è la stessa azienda a dichiarare che, a causa delle “variazioni del contesto macroeconomico” (alias inflazione e aumento dei tassi d’interesse), si rende necessario un cambio di modello di business, includendo il licenziamento del 30% dei dipendenti. È ovvio che una startup debba modificare il proprio modello di business nei primi anni di vita, lo devono fare anche le aziende più mature, e che generi perdite è cosa altrettanto normale. Ma, lato investitori, che il modello di business non regga al modificarsi di alcune variabili storicamente cicliche lascia un po’ perplessi. E magari, mentre qualcuno riflette su qualche stress-test non fatto in fase di investimento, l’azienda si espande attraverso acquisizioni. Ora è presente a Milano, Roma, Torino, Bologna, Firenze, Parigi, Barcellona, Madrid, Malaga, Siviglia e Lisbona e porta a casa oltre 6.000 transazioni per un controvalore superiore ai 2 miliardi di euro e punta ad una ristrutturazione per azzerare le perdite nel 2024.
Una parentesi va spesa per Bitcoin ed NFT, per i quali forse si è corso un po’ troppo. Infatti, la criptovaluta più famosa al mondo dopo aver superato i 60.000 euro è rapidamente scesa per assestarsi tra i 20-25.000 euro. Eppure, l’euforia che si respirava durante il picco era contagiosa: si parlava di obiettivo minimo 100.000 entro fine anno. Ma poi, grazie anche a qualche tweet, sono iniziate le montagne russe e la caduta (evidenziando la patologia di cui è infetta la finanza contemporanea: le variazioni a doppia cifra a seguito di post sui social network). Discorso ancora più divertente quello degli NFT, la rivoluzione dell’arte, una tecnologia davvero interessante soprattutto con l’avvento dell’intelligenza artificiale. Peccato solo che è diventa famosa per aver portato simpatiche scimmiette a valere centinaia di migliaia di euro, a cui è seguito il tracollo del loro valore e l’avvio di cause per “truffa”.
Entrambi gli oggetti hanno in comune l’interessantissima tecnologia alla loro base, ovvero la blockchain, ma anche l’eccesso di entusiasmo e gli eccezionali guadagni per pochi e le perdite di molti. Va però osservato come la tecnologia blockchain, che sfrutta la potenza dei computer, sia altamente energivora ed inquinante. Per gli NFT si calcolano emissioni pari a 16 milioni di tonnellate di carbonio (Forbes – Dappgambl). Discorso ancora più evidente per le criptovalute dove, come evidenziato da ilSole24Ore, il comparto rischia da solo di mettere ad alto rischio il raggiungimento degli Accordi di Parigi in termini di contenimento delle emissioni. Il Bitcoin Electricity Consumption Index dell’Università di Cambridge calcola che la criptovaluta necessiti di oltre 133 TWh di elettricità l’anno, più di un paese come la Svezia o l’Argentina, e ne consegue un’emissione di 36 milioni di tonnellate di CO2 (stima International Energy Agency).
La domanda sorge spontanea: cosa succederebbe se questo entusiasmo fosse riversato anche sulle nostre eccellenti PMI?
CORTOCIRCUITO LEGISLATIVO-FINANZIARIO
In questo contesto entra in gioco anche la politica. È cosa nota, ad esempio, che l’UE e diversi partiti politici hanno fatto del “Green Deal” la loro principale battaglia impattando su tutto e tutti, dalle imprese agli investitori, ma soprattutto coinvolgendo e sfruttando i consumatori-elettori.
Prima di proseguire va fatta una breve parentesi: quando è esplosa mediaticamente la spinta “green”? Possiamo associarla al movimento di Greta Thunberg, giovane attivista proveniente da una famiglia di artisti (madre cantante d’opera, padre e nonno attori) che ha portato in piazza, grazie soprattutto ai social network, migliaia di giovani, nuove generazioni, ma soprattutto nuovi elettori (non ancora lavoratori) facilmente influenzabili. Da li a poco tutto ciò che presentava la dicitura “green”, a prescindere che lo fosse veramente o meno, è diventata una specie di panacea per tutti i mali e quindi fonte di potenziali grandi guadagni e di slogan da gridare nelle piazze per mascherare la nullità dei contenuti del palco elettorale.
Quindi, partendo da un nobile intento quale la salvaguardia dell’ambiente, si è arrivati in una situazione dove il legislatore ha spinto talmente tanto sull’acceleratore della transizione ecologica (vedi blocco al motore endotermico 2035, il divieto di circolare nelle principali città se non si è abbastanza abbienti per cambiare spesso l’auto, oppure la direttiva sulla Plastic Tax) che gli investitori hanno preso la palla al balzo pompando benzina in tutto ciò che, almeno apparentemente, è green. Ma le regole del green evidentemente valgono solo per ciò che è “vecchio” ed “europeo”, infatti, come detto in precedenza, non vi è nessun problema se ad inquinare sono Bitcoin, NFT o se i beni sono prodotti in Paesi che non rispettano nessun accordo sul clima e sui diritti umani. In pratica l’inquinamento non fa male se non lo vedo. Peccato, perché iniziavamo a crederci a parole come inclusività e sostenibilità, usate ormai come intercalare in ogni discorso politico-economico.
In questo contesto a rimetterci sono famiglie e imprese, in particolar modo quelle PMI dell’economia reale che oggi sono eccellenti, ma in cui un domani la proprietà potrebbe stancarsi di dover combattere contro queste imposizioni e cedere l’attività a qualche competitor extra-europeo o semplicemente chiudere. Peccato che così facendo il nostro tessuto produttivo tenderà a diminuire ed allora sarà inutile lottare per aumentare i salari.
Se da un lato per un burocrate, o un politico che non ha mai lavorato, è indifferente se quello che promuove è vero green o meno, se fa chiudere una PMI italiana e la fa sostituire da un’azienda cinese. Dall’altro il mondo finanziario è concreto e reagisce di conseguenza: investe in un mercato forte della spinta legislativa, e successivamente ha due opzioni: far auto avverare le previsioni in cui ha investito, oppure esplodere in una bolla.
La speranza è che il mondo finanziario e quello politico tornino ad amare l’economia reale, a premiare chi ha il coraggio di fare impresa e coloro che continuano a farlo da decenni, riducendo la speculazione, la burocrazia e l’incoerenza.
Sebastiano Signò
Professionista di Corporate Finance, Partner in Thymos Business & Consulting